La ricerca della felicità (o come ho imparato a smettere di correre e ad amare il panino al salame alle 3 di notte)
Viviamo in un’epoca che definirei “dell’ansia per procura”: corriamo come levrieri dopati, con in tasca un telefono che vibra più di un sex toy in saldo su Amazon, e poi ci chiediamo perché la felicità sembri sempre in ritardo, come l’autobus delle 8.15. Ma se vi dicessi che il segreto non è correre più veloci, ma fermarsi a guardare sotto il tappeto del nostro caos interiore? Sì, proprio lì, accanto alle briciole dei biscotti mangiati di nascosto e ai rimorsi per quell’abbonamento a Netflix che paga solo la tua dolce metà.
- La ricerca della felicità (o come ho imparato a smettere di correre e ad amare il panino al salame alle 3 di notte)
- La forza dell’autoconsapevolezza: ovvero come ho scoperto di essere un cactus emotivo
- Autenticità: il coraggio di essere te stesso (e di dire al collega che il suo profumo sa di dentifricio scaduto)
- Le radici dell’autenticità: ovvero perché Gandhi non avrebbe mai fatto lo smartworking
- Il coraggio del cambiamento: ovvero come ho imparato ad amare le mie ciabatte bucate
- Conclusione: il viaggio è una poltrona Ikea da montare
La forza dell’autoconsapevolezza: ovvero come ho scoperto di essere un cactus emotivo
Autoconsapevolezza, dicono. Parola grossa come una suora ad un buffet. Per me, all’inizio, significava fissare il soffitto alle 2 di notte chiedendomi: “Ma perché ho detto sì a quella cena con i parenti di mia cognata? Perché ho comprato un bonsai se uccido pure i cactus finti?”.
Poi ho capito: essere consapevoli è come avere Google Maps per l’anima. Ti mostra le deviazioni (quelle sbagliate, tipo accettare un lavoro che odi per comprarti le scarpe che invidi), i tornanti («sì, certo, sto benissimo!» menti al terzo caffè della giornata), e i vicoli ciechi dove ti ritrovi a parlare di crypto con uno sconosciuto al matrimonio di tua sorella.
Il Buddha diceva di osservare i pensieri senza giudicarli. Io, più modestamente, ho iniziato osservando le mie reazioni durante le riunioni su Zoom: 1) sorrido come un pagliaccio, 2) disattivo la webcam per mangiare taralli, 3) mi convinco che “muto” non significhi anche “invisibile”. Progressi.
Autenticità: il coraggio di essere te stesso (e di dire al collega che il suo profumo sa di dentifricio scaduto)
Essere autentici è come andare al supermercato in ciabatte: liberatorio, ma rischi di incontrare il tuo capo. Brené Brown parla di vulnerabilità come forza. Io, dopo aver pianto durante una pubblicità della Findus, posso confermare: mostrarsi fragili è l’unico modo per non scoppiare come un pallone gonfiato al sole.
Un esempio? Ieri ho confessato alla mia compagna che nascondo le bustine di ketchup del fast food nel portafoglio. Lei mi ha guardato come se avessi ammesso di trafficare organi. Poi ha riso. Ecco, l’autenticità è questo: trasformare le tue stranezze in inside joke, invece di seppellirle sotto un post Instagram #blessed.
Le radici dell’autenticità: ovvero perché Gandhi non avrebbe mai fatto lo smartworking
Vivere coi propri valori è come scegliere tra andare in palestra e fare un pisolino sul divano: la seconda opzione vince sempre, ma almeno ammetterlo è onesto. I miei valori? Il caffè alle 11, il silenzio quando guido, e non fingere entusiasmo per i regali di Natale (grazie, zia, altro calendario di Padre Pio…).
Frida Kahlo dipingeva il suo dolore. Io, più prosaicamente, scrivo biglietti passivo-aggressivi al coinquilino che lascia piatti sporchi nel lavello. Arte è arte.
Il coraggio del cambiamento: ovvero come ho imparato ad amare le mie ciabatte bucate
Eckhart Tolle parla di accettare l’impermanenza. Io accetto che la mia scrivania sembri un crime scene post-caffè, e che la mia playlist preferita sia ancora “Summer Hits 2016”.
Leonard Cohen diceva che dalle crepe entra la luce. Nella mia vita, dalle crepe entrano le formiche in cucina, ma va bene così. L’importante è ridere di sé stessi, soprattutto quando ti rendi conto che “meditazione guidata” è solo un modo elegante per addormentarsi seduti.
Conclusione: il viaggio è una poltrona Ikea da montare
La felicità non è una meta, è la sbavatura di colla sul mobile che hai assemblato al contrario. Fa parte del design.
Ogni giorno è un passo: oggi ho rifiutato un invito per stare in pigiama, domani magari dirò “no” al collega che mi chiede di coprirlo dopo 10 anni di bugie. Intanto, celebro le piccole vittorie: ho smesso di fingere che mi piaccia il calcio, e ho finalmente confessato al mio vicino che il suo vino fatto in casa sa di aceto.
Autenticità è libertà. O, come direbbe mia nonna: “Meglio puzzare di sudore che di falsità”. Amen.
Sostieni il mio lavoro (o come pagarmi il caffè che bevo mentre scrivo ste cose)
Se questo articolo ti ha strappato un sorriso o fatto annuire tipo gufo in metropolitana, puoi offrirmi un caffè (io lo prendo lungo, senza zucchero, grazie). Oppure condividilo con qualcuno che ha bisogno di ridere mentre naviga nel proprio caos esistenziale.
Donazione via PayPal: Clicca qui e non farmi finire a scrivere su foglietti del Lidl
Condividi se:
- Hai mai pianto davanti a una pubblicità
- Hai una collezione di bustine ketchup
- Ti sei sentito un eroe per aver detto “no” alla cena di Natale
Grazie. Ora vado a cercare le ciabatte. E le briciole sotto il tappeto.
Matteo Ricci