Come Ritrovare il Contatto con la Materia | Guida Pratica al Materialismo Consapevole

Posted by Matteo Ricci on February 22, 2025 · 7 mins read

La strana storia di come abbiamo smesso di sentire le cose

Apri quel cassetto. Quello dove butti le chiavi, i tappi delle penne, le monete polacche che non sai dove spendere. Quanti oggetti ci stanno? Cento? Duecento? Eppure, se ti chiedo di descrivere la consistenza del portafoglio che tocchi ogni giorno, ti viene da ridere. Viviamo immersi in un mare di plastica e metallo, ma abbiamo le dita anestetizzate.

Alan Watts – sai, quel filosofo con la barba da hippy ante litteram – ci ha azzeccato: “compriamo come respiriamo, ma abbiamo perso l’arte di sentire”. Tipo quando accarezzi un gatto mentre controlli la mail. Il gatto c’è, le dita pure, ma manca il ponte.

Guarda le tue giornate: lavoro che scivola via come sapone nel lavandino, panini trangugiati in piedi col gusto della plastica, serate a scrollare video mentre la vita vera è lì, seduta sul divano accanto a te che aspetta un tuo sguardo. Non è filosofia, è quella sensazione di legno scorticato che hai quando apri l’armadio e ti cadono addosso tre valigie piene di cose “indispensabili” che non usi da anni.

Eppure. Eppure c’è chi ancora sa parlare con la materia. L’ho visto dal mio falegname di fiducia. Lui non “lavorava” il legno. Lo corteggia. Passa il pollice sul tavolo come fosse una guancia. “Devi sentire dove vuole spaccarsi”, dice. Non è misticismo. E’ un dialogo muto tra dita e venature.

Ma oggi? Nelle scuole insegnano a programmare app, non a piantare un chiodo dritto. La mia vicina, ceramista, ride: “Mi chiamano hipster perché faccio ciotole a mano. Ma quando rompi una tazza di Ikea, piangi solo i 3 euro spesi. Se si rompe una delle mie, piangi la storia che conteneva”.

Hannah Arendt ci aveva visto lungo

“Siamo animali che fanno”, scriveva. Non che producono. Non che consumano. Fanno. Come quel barista sotto casa che disegna cuori nella schiuma del cappuccino anche se nessuno gli ha chiesto di farlo. Perché? Per il like su Instagram? No. Per il suono che fa il latte quando si trasforma in arte effimera.

Lavoro: quella strana cosa che facciamo 8 ore al giorno

“Che lavoro fai?” “Sistemistica”. “Ah, bene”. E intanto pensi “Cosa cacchio vuol dire?”. Viviamo in un mondo di mestieri fantasmi. Non si vedono, non si toccano. Come spiegare a tua nonna che *“crei contenuti digitali”? Lei che lavava i panni nel fiume e stirava con ferri di carbone.

Alan Watts sbeffeggiava: “Dite che odiate il lunedì, ma passate la domenica a comprare cose per consolarvi del fatto che dovete lavorare per comprare altre cose”. È un loop da criceto impazzito.

Ma guarda il pescivendolo al mercato. Quello che conosce ogni triglia per nome. Quando infila le mani nel ghiaccio per pescarti un’orata, non sta “prestando servizio”. Sta danzando. Un giorno gli ho chiesto: “Non le scotta il freddo?”. Ha riso: “Se senti solo il ghiaccio, sì. Se senti il pesce, no”.

Quando l’ultima volta che hai mangiato? Davvero mangiato?

Tipo ieri. Hamburger in una mano, telefono nell’altra, occhi su una riunione Zoom. Il panino era caldo? Freddo? Boh. Sapore di ketchup generico. Eppure mio zio contadino, quando spreme un pomodoro, lo annusa prima di morderlo. “Questo ha visto 32 giorni di sole”, dice. Sembra pazzo. Forse lo è. O forse sa qualcosa che noi abbiamo dimenticato.

Jean Anthelme Brillat-Savarin non era un influencer. Era un tizio del ‘700 che scriveva: “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Oggi diremmo: “Dimmi cosa mangi e ti dirò su quale app hai ordinato”. Tragico.


L’unico trucco per essere ricchi (e non serve la crypto)

No, non è “vivere nel momento”. È più terra terra. È quando stiri una camicia e senti il calore che penetra attraverso il tessuto. Quando scarti un pacco e conservi il nastro perché è così bello che sembra un regalo. Quando pianti un chiodo e invece di maledire perché hai schiacciato un dito, ridi pensando “Ecco, questo sarà il buco più storto della storia dell’umanità”.

Io stesso, quando impasto il pane, a volte lascio cadere della farina sul pavimento appena lavato. Prima bestemmiavo. Ora sorrido. Perché quella polvere bianca su fondo nero è un quadro di Mondrian che dura tre secondi. E sono tre secondi di pura, imperfetta, splendida materialità.

Non serve buttare lo smartphone. Basta a volte appoggiarlo su quel tavolo di legno vivo che hai in sala. Quello con i segni delle tazze e quel graffio fatto dal gatto nel 2015. Quello che racconta storie al solo tocco.


Se ti è rimasto qualcosa tra le dita

Questo pezzo l’ho scritto al tavolo di cucina, tra una macchia di caffè e un segno di pennarello indelebile che mia nipote chiama "il mio disegno dell’universo". Se qualcosa di queste parole ti è entrato sotto la pelle come una scheggia di legno, possiamo fare un patto. Non ti chiederò di cliccare compulsivamente su pubblicità invasive o di iscriverti a corsi in 12 puntate.

Se mai vorrai offrirmi un caffè virtuale (o reale, se passi dalle parti di Trento), qui c’è il mio PayPal. Non sarà un gesto di carità, ma un modo per dire: "Tieni, continua a raccontare che la materia conta". Ogni caffè è come un mattoncino Lego nella mia cattedrale di pensieri.

Preferisci non spendere? Perfetto. Condividi questo articolo con quella persona che conosci. Quella che ha la casa piena di oggetti tristi comprati per noia. O mandalo al tuo capo che chiama "lavoro creativo" riempire Excel. Forse non cambierà il mondo, ma almeno avremo provato a grattare la superficie delle cose.

E se per caso un giorno trovi una monetina nel divano, quella che scotta quando la tieni in mano d’estate, pensa: potrebbe essere il mio prossimo rigo. Grazie, davvero. Non per i soldi, ma per aver letto fin qui con le dita sulla tastiera, non solo con gli occhi.

Matteo